Com’è iniziata, nessuno lo sa. Forse un nostro antenato ha profanato la tomba di un faraone, forse ha fatto arrabbiare una strega o ha stecchito un animale che era sacro a un dio vendicativo, l’unica cosa certa è che da quel momento la nostra famiglia si porta addosso una maledizione spaventosa.
Oggi parliamo di un romanzo recente e noto: Il mare dove non si tocca, di Fabio Genovesi. Chi ne ha scritto, ha espresso lodi spassionate all’indirizzo tanto dell’autore quanto dell’opera. Vi anticipo sin da ora che non mi sento di condividerle al cento per cento. Pubblicato nel 2017, è la storia di Fabio Mancini, un ragazzino toscano pieno di zii: così pieno (ne ha cinque o sei, tutti con nomi suggestivi come Athos, Adelmo e Aramis) che la sua infanzia ne è totalmente assorbita. Infatti Fabio arriva alla prima elementare senza alcun amico della sua età, e anzi senza conoscere effettivamente nessuno dei suoi coetanei.
Fabio sa andare a caccia e a pesca, sa nuotare e legge manuali di lombricoltura e allevamento di polli, ma nessuno gli ha mai spiegato come interagire con i bambini o con le temutissime bambine: scopre il potere aggregante delle figurine quando i suoi compagni pensano già al sesso. Inoltre Fabio è tormentato dalla maledizione della famiglia Mancini, secondo cui se arrivi a quarant’anni senza esserti sposato sei destinato alla follia. Una credenza in parte originata dalle abitudini un po’ svitate degli zii, tutti scapoloni chiassosi e piuttosto rozzi, poco disposti alla vita in società.
L’unico modello per Fabio è il papà Giorgio: un idraulico aggiusta-tutto, con mani magiche che tappano qualsiasi falla. È proprio il grande Giorgio che, poco prima di un incidente che lo manderà in coma per diversi anni, insegna a Fabio il principio fondamentale della vita: che quando sei in ballo, devi ballare; che anche se ti sembra di non toccare all’acqua alta, puoi contare sulle tue forze per non affogare.
Il mare dove non si tocca è la storia di come Fabio impara a nuotare nel mare della vita: all’inizio il bambino è un disadattato, perché si sente sempre in difetto con gli altri bambini. Come un corridore che ha perso lo sparo d’inizio gara, la vita di Fabio è un inseguimento, perché il bimbo sente di aver «perso il treno della vita»: ma i maldestri tentativi di omologazione ai bambini “lupo”, o ai “piccoli devoti”, non fanno che rafforzare il suo senso di inadeguatezza.
Fabio è ulteriormente messo in difficoltà dall’incolpevole assenza del padre: cerca di aggrapparvisi come può, crede che prima o poi aprirà gli occhi come alcuni credono in Dio, senza prove, perché se provi a ragionarci su il mondo ti crolla addosso. Tiene alla larga il realismo scientifico e senza cuore dei medici, che lo invitano a non farsi illusioni, e al tempo stesso non accetta figure sostitutive negli zii, di cui anzi si vergogna profondamente.
A me non mi ha convinto mai, la sincerità. Non ci vuole nulla a essere sinceri, basta aprire la bocca e buttare fuori tutto lo schifo che hai dentro. Apprezzavo molto di più le persone che invece, prima di darmela, questa famosa sincerità me la aggiustavano un pochino. Perché insomma, avevo dieci anni ed ero il figlio del grande Giorgio, che era arrivato sul pianeta Terra con la missione di aggiustare tutto, e invece adesso stava lì fermo su un letto meno vivo dei fiori che gli mettevamo sul comodino. E allora, quando ti chiedo se c’è speranza che un giorno possa tornare a camminare, o aprire gli occhi per guardarmi, o anche solo la bocca per dirmi che mi vuole bene, se tu sorridi e mi rispondi tranquillo No, ecco, non è che sei sincero, sei solo un grandissimo stronzo.
A proposito degli zii, un po’ matti ma sinceri, soprattutto invadenti, l’autore ha dichiarato in un’intervista che si tratta di personaggi realmente esistiti: «I miei zii erano davvero quelli, anche se ho cambiato alcune cose. Anch’io fino alla prima elementare ho passato tutta la vita con loro, che si disputavano la mia compagnia: niente asilo, niente compagnia di altri bambini […] Arrivare in prima elementare è stato uno shock, non sapevo interagire con i miei coetanei», ha detto Genovesi alla rivista Sul Romanzo.
Più difficile per l’autore immedesimarsi nel piccolo Fabio o, più precisamente, pensare come un bambino, cioè in modo profondo ma semplice. Le citazioni che ho inserito sono un buon esempio dello stile della narrazione, tutta svolta in prima persona da Fabio, con quell’andamento intimamamente logico eppure incline alle distrazioni che hanno i racconti dei bambini. Forse è questo sforzo di immedesimazione, o di realtà, che rende la parte centrale del romanzo abbastanza lenta, concettualmente ripetitiva. In effetti a metà libro ero abbastanza scoraggiata dal proseguire e delusa (soprattutto visto il bene che ne avevo letto e, lo confesso, un attacco simpatico che mi aveva invogliata all’acquisto). E infatti conosco persone che non hanno voluto terminare la lettura.
Peccato, perché la parte finale merita. Dedicata al rapporto padre-figlio, ma anche a quello con una persona malata, ha una delicatezza particolare. Ogni minimo miglioramento è fonte di gioia infinita, sprone a sperare e a insistere. Un entusiasmo apparentemente basato sul nulla, su cambiamenti troppo piccoli per valere qualcosa nel mondo esteriore, ma pienamente fondato e giustificato per chi ha sofferto la paura della morte, il trauma della perdita. Ecco, solo per questo climax finale mi sento di consigliare il romanzo.
- Autore: Fabio Genovesi
- Genere: Romanzo di formazione (324 pp.)
- Filone: Italiana contemporanea
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2017
Pingback: Il mare dove non si tocca – unlibrounvolo
Io l’ho trovato un po’stucchevole, cmq dopo la tua recensione forse mi ricredo
Infatti “conosco persone che non sono riuscite a finirlo” 😀