Fu il caso a portarmi al Karnak Café.
Il caffè Karnak è più di un semplice bar: è il microcosmo nel quale si svolge l’intera storia raccontata. E parlo di microcosmo non per caso: vi si riuniscono pochi, abituali avventori, che rappresentano, però, un piccolo campione della popolazione egiziana durante il governo Nasser.
Il Cairo, anni ’60. Il Karnak Café, gestito dalla ex danzatrice del ventre Qurunfula, è il luogo di incontro di tre generazioni. Tra i clienti fissi figurano alcuni anziani, sempre pronti a rifugiarsi nel passato con una punta di nostalgia, e i giovani universitari, Hilmi, Isma’il e Zaynab, figli della rivoluzione del 1952. In mezzo, spiazzati dagli eventi, ci sono il narratore e la stessa ballerina. A sconvolgere la tranquilla routine del Karnak interviene la polizia: Khalid Safwan fa ripetutamente arrestare e torturare i tre giovani, e li accusa di tramare contro il regime. Queste incarcerazioni privano il Café di ogni vitalità e cambiano per sempre le relazioni tra i personaggi.
Il racconto è narrato in prima persona: il narratore costruisce la storia in modo progressivo, prima offrendo il punto di vista di Qurunfula, poi acquisendo altre informazioni dai ragazzi e dal loro carceriere. Nonostante la giustapposizione di questi tasselli, la realtà che sta fuori dal Karnak Café rimane oscura e inspiegabile.
Sappiamo che il governo Nasser, quella rivoluzione di cui Hilmi e gli altri si sentono orgogliosi figli, ha delle storture e degli eccessi non dissimili da quelli che pretende di aver superato. A farne le spese sono soprattutto quei ragazzi, e ne sono totalmente travolti. Per gli anziani, invece, poco cambia essere sotto la monarchia o no, anzi, forse si stava meglio prima.
Ma chi non riesce a fare una scelta sono i personaggi “in mezzo”. Qurunfula, innamorata del giovane Hilmi Hamada e distrutta dal suo arresto, guarda alla Storia da un punto di vista personale e totalmente sentimentale.
Il narratore, invece, pur non essendo emotivamente coinvolto è ugualmente in balia dei cambiamenti.
Sì, certo, mi dissi, l’esistenza che viviamo ha i suoi aspetti dolorosi e negativi, ma sono soltanto inevitabili rifiuti… Non dovrebbero impedirci di vedere la grandezza del concetto fondamentale e la sua portata.
Applicando questa logica, sarei perfino riuscito a convincermi che anche la morte aveva proprie necessità e specifici vantaggi.
Come sempre accade nelle storie di torture, l’autore usa la metafora della luce che scompare dagli occhi dei giovani avventori del caffè, l’immagine delle loro teste rasate. Ma non solo: quando i ragazzi mancano, o quando tornano dopo la prigione, è l’intero microcosmo a cambiare. I dibattiti perdono di vivacità, di coraggio. Uccidendo lo spirito dei suoi giovani, il regime condanna l’intero Egitto.
Buon dio, mi dissi, qui le divinità dell’inferno stanno concentrando tutta la loro attenzione sulle persone dotate di idee e della volontà di portarle a buon fine.
- Autore: Nagib Mahfuz
- Genere: Racconto (95 pp.)
- Filone letterario: Narrativa egiziana
- Traduzione: Chiara Vatteroni
- Edizione: Il Sole 24 ORE, collana Racconti d’autore
- Anno di pubblicazione: 1974
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