Presentato come un romanzo sulle difficoltà nei rapporti tra genitori e figli e persino come una sorta di thriller sentimentale, Le fedeltà invisibili, di Delphine de Vigan, tradisce in parte le attese. Nella sua brevità, veleggia su diversi temi (dall’alcolismo alla separazione, dal rapporto sbilanciato nella coppia alla disattenzione dei genitori verso i figli, con una incursione nel mondo degli hater). Ma ne lambisce appena la superficie.
La storia mette a confronto pochi personaggi, due bambini e due donne. Da un lato c’è Théo, dodicenne con genitori separati, continuamente costretto a far la spola tra le case – e le vite – di una mamma energica e gelosa e di un papà depresso e assente.
Un giorno che probabilmente Théo le era sembrato troppo allegro dopo la settimana passata dall’altra parte, il viso di sua madre aveva assunto un’espressione tristissima.
È lui, ovviamente, che cova le fedeltà invisibili, che, come scrive de Vigan, sono «lealtà silenziose, sono contratti per lo più stipulati con noi stessi. […] Le trincee in cui seppelliamo i nostri sogni». La fedeltà nei confronti del padre lo spinge a nascondere a tutti, anche all’amico Mathis, lo stato di assoluto degrado in cui questi vive. La ragnatela che lo lega alla madre è fatta di sensi di colpa, soprattutto quando ritorna «dall’altra parte»: la donna dell’ex marito non vuole sentir parlare, e costringe il piccolo Théo a vigorose docce prima di riceverlo al suo cospetto.
Incapace di reggere a questa scissione, ignorato, sia pur per motivi diversi, da entrambi i genitori, Théo trova rifugio nell’alcol da quattro soldi, trangugiato con Mathis al riparo di angoli oscuri della scuola. Anche Mathis rischia di cadere nella trama autodistruttiva di Théo. Solo che quello che per l’amico è un gioco, per Théo diventa una necessità.
Vorrebbe ritrovare nei propri movimenti l’impronta dell’alcol, una lentezza un torpore, anche minimo, ma non rimane più niente. Ha perso la sua corazza. […] È ridiventato il bambino che lui odia, che preme il pulsante dell’ascensore con la paura nella pancia.
Gli altri personaggi chiave sono Hélène, l’insegnante di scienze, e Cécile, mamma di Mathis. Gli unici personaggi, tra l’altro, le cui vicende siano narrate in prima persona. Una scelta stilistica tesa probabilmente a indicare che loro sono padrone del proprio destino, mentre i due bambini, sia pure in modo molto diverso, sono in qualche misura influenzati, quando non manovrati, dai rispettivi genitori.
Anche Hélène e Cécile hanno alle spalle una storia di “fedeltà invisibili”: l’una nei confronti del padre, alcolista violento, l’altra verso il marito, un leone da tastiera. Entrambe fiutano il pericolo che minaccia i bambini, ma sono sole e incomprese.
Nonostante le promesse del titolo, e l’indubbio interesse del tema, il romanzo ha un grosso limite: lo stile rimane piuttosto freddo, poco coinvolgente. Il paragone più immediato che mi viene in mente è con l’Arminuta: anche lì c’è un abisso tra genitori e figli, ma il linguaggio è molto più intenso.
Certo, de Vigan a differenza di Di Pietrantonio si legge in traduzione, ma non credo che il problema sia questo. Alcuni passaggi banalotti sminuiscono la profondità di interi momenti (penso in particolare alle riflessioni mute di Cécile).
In generale nel miscuglio di fatti e di voci i temi centrali si perdono un po’. Effetto voluto? Il quotidiano distrae l’essenziale? Io non credo.
- Titolo originale: Les Loyautès
- Autore: Delphine De Vigan
- Traduzione: Margherita Botto
- Genere: Romanzo (134 pp.)
- Filone letterario: Letteratura francese
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2018