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La preda: il romanzo sull’ambizione di Irène Némirovsky

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«Non bisogna soffocare la propria gioventù. Si vendicherà. L’ambizione, il calcolo, sono passioni da uomo maturo».

Dopo qualche anno, torno a una delle mie scrittrici preferite, Irène Némirovsky: nata a Kiev nel 1903 ma trasferitasi in Francia da adolescente, è un’autrice difficile, capace di dar vita a personaggi intensi e drammatici, inscenando grandi passioni. Io l’ho conosciuta grazie a Il ballo: era il periodo delle primissime edizioni Newton Compton da un euro, e la fortuna ha voluto che mi imbattessi in questo straordinario, penetrante racconto costruito intorno al sentimento della Vendetta. In La preda, invece, il perno della storia è l’Ambizione; una sfrenata sete di potere che corrode l’umanità del protagonista, consuma la sua gioventù e lo lascia solo.

Parigi, anni Trenta. Jean Luc Daguerne, ventenne squattrinato e bohémien, vagheggia un futuro in stile “due cuori e una capanna” con Edith Sarlat, figlia di un ricchissimo banchiere. Quando Edith annuncia il suo fidanzamento con un candidato più facoltoso, per Jean Luc è uno shock. Messo da parte ogni sentimento e scrupolo, riesce a ingannare e sposare Edith: il suo obiettivo diventa entrare nei salotti buoni di Parigi tramite la famiglia Sarlat. Per conquistare prestigio e potere, Jean Luc si mette al servizio di un compare del suocero, Calixte-Langon, che lo introduce nel mondo della politica…

Un mondo senza umanità

Quella di Jean Luc Daguerne è una storia di ascesa e declino, una parabola sui limiti dell’ambizione e sull’importanza dei rapporti sociali: nonostante i suoi sforzi, il tentativo perenne di giocare d’astuzia, di compiacere il più potente, Jean Luc rimane sempre fuori dalla cerchia del potere. Se all’inizio la sua qualità principale è la sincerità (unita a una buona dose di ingenuità), il tracollo del suo sogno romantico risveglia in lui un istinto animale di vendetta e sopravvivenza: vendetta nei confronti di Edith, sopravvivenza intesa come necessità di affilare le armi in un mondo fatto di finzioni.

Il tema della finzione ritorna in diversi dettagli e scene del romanzo: dalle cene eleganti tra rivali di partito, al personaggio della madre di Edith, che si circonda di libri che non ha mai letto e passeggia con uno Shakespeare che non ha mai aperto. E ancora, nell’orazione che Calixte-Langon pronuncia davanti alla Camera, per difendersi da alcune accuse ed evitare il processo: cestinato il circostanziato discorso preparato da Jean Luc, ricco di prove ed argomenti razionali, Langon conquista la platea parlando a braccio, col tono forte e sicuro della voce più che con le parole.

Alle proteste rispondeva alzando la voce così da coprire senza sforzo apparente il clamore della sala, e questo suscitava l’ammirazione come avviene per la qualità fisica della voce di un attore.

E così sui dati precisi prevale l’eloquio appassionato, la battuta sfolgorante. Nella stanza accanto, intanto, un uomo senza mezzi va a processo «davanti a banchi vuoti», e «assistito da un difensore d’ufficio di origine straniera che parlava a malapena il francese». Ma per Jean Luc è tutta scuola, pur sempre un’opportunità. Finché non si rende conto di quanto marcia sia la compagnia alto borghese tanto ambita. I suoi miti, gli onnipotenti padroni della finanza e della politica, dopo averlo fagocitato e averne sfruttato la linfa e le idee, lo risputano fuori alla prima occasione. Ed ecco che il giovane Daguerne, che si sentiva cacciatore, è costretto a riconoscersi preda.

Un destino à la Julien Sorel?

Purtroppo la situazione non può tornare al punto di partenza, il bilancio di questa avventura non chiude in pari, perché Jean Luc, nell’ascesa, ha perso tutto: l’affetto della famiglia, l’amico di una vita Serge, la capacità di amare o di provare pena. Jean Luc è stato paragonato a Julien Sorel, protagonista de Il Rosso e il Nero di Stendhal, citato nel romanzo. Personalmente, invece, ci vedo qualcosa di Verga, e dell’incompiuto Ciclo dei vinti: anche al culmine della ricchezza, la sua solitudine gli si ritorce contro come un’arma letale, privandolo della felicità tanto agognata.

Cos’altro offriva ai giovani il mondo di quegli anni?… Non c’era lavoro, non c’erano ambizioni, ancorché modeste, realizzabili, tutto era immobile. Restava solo questo… La crudele e fredda passione di far carriera, camuffata con ogni sorta di nomi e di etichette ideologiche.

Jean Luc, all’apparenza forte e sempre pronto a sfoderare una mossa micidiale, finisce con le armi spuntate. Cresciuto troppo in fretta e sulla spinta della rabbia, non ha acquisito la capacità di accettare il fallimento. L’incontro con il fratello, venuto in visita come un fantasma del suo passato, per Jean Luc è il colpo di grazia; incapace di confessare a se stesso di essersi persa, la preda va incontro al suo destino.

La giovinezza è un vino pregiato che di solito si beve in un bicchiere da due soldi.

  • Titolo: La preda (La Proie)
  • Autore: Irène Némirovsky
  • Genere: Romanzo
  • Filone letterario: Francese contemporanea
  • Traduzione: Laura Frausin Guarino
  • Casa editrice: Adelphi
  • Anno di pubblicazione: 2012 (1938)

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