Se la qualità di un romanzo si misura dalla sua capacità di rifuggire la banalità, allora Il Maestro e Margherita si può definire immenso. L’opera più famosa di Michail Bulgakov, frutto di una gestazione durata quasi dodici anni (dalla fine del 1928 alla scomparsa dello scrittore, nel marzo del 1940) è semplicemente imprevedibile.
Il primo elemento sorprendente è che il Maestro e Margherita, proprio loro, non compaiono prima di (circa) duecento pagine. Quelli che, stando al titolo, parrebbero i personaggi principali dell’opera, non sono che i coprotagonisti di un lungo e ingarbugliato romanzo a tre trame, due delle quali, ambientate a Mosca, hanno per burattinaio il misterioso Woland.
Ed ecco il secondo elemento sconcertante: Woland, alter ego del diavolo, è, nel sembiante e nel carattere, quanto di meno diabolico possiamo immaginare. La sua forma terrena non ha nulla di spaventoso. Agli occhi dei moscoviti appare come uno straniero, un turista colto e un po’ svanito che visita per la prima volta la città, millantando amicizie millenarie, da Ponzio Pilato a Immanuel Kant. Questo strano, posato individuo, che all’inizio della storia appare placidamente impegnato a dissertare dell’esistenza di Dio e di Satana, porterà uno scompiglio inaudito in città.
La scena principale: Mosca
La bellissima Mosca, plasticamente descritta da Bulgakov, è una città ordinata e burocratizzata, in cui ogni persona ha un ruolo e un supervisore, e ogni attività o arte è sorvegliata da una Commissione o un Comitato. Gli abitanti, grigi e ammaestrati, indistinguibili dietro l’uniforme inquadramento a cittadini, nascondono – reprimono – una brama insospettabile di ricchezza; un appetito di soldi, peraltro, fine a se stesso, vista l’impossibilità di ostentare – e, ancor prima, di immaginare – qualunque cosa esuli dall’ordinario.
L’arrivo di Woland e dei suoi aiutanti finirà per sovvertire non solo l’ordine umano, ma persino l’ordinamento naturale delle cose, trasformando il sole caldo dei tramonti primaverili in devastanti temporali di nebbia e fulmini, e allungando la notte a piacimento del signore delle tenebre.
A proposito del seguito di Woland, la cricca di Satana è decisamente più diabolica di lui. In ordine di malignità, spiccano Fagotto-Korov’ev, untuoso e molesto, e il crudele gatto Behemot, dagli appetiti umani; insieme giocano perversi scherzi a chiunque non assecondi le loro capricciose richieste. Seguono Azazello, ripugnante e sanguinario, e la spaventosa Hella, ammaliante e pericolosa come una sirena. Questa banda di criminali mette la città a ferro e fuoco, sotto lo sguardo impassibile – forse, lievemente deluso – di Woland.
La storia di Ponzio Pilato
Accanto a questa trama si svolge, con imprevedibili punti di tangenza, la storia di Ponzio Pilato. Prima come un ricordo, poi come un sogno e come un romanzo, procede la vicenda del quinto procuratore di Giudea, colto nel momento del suo incontro con Gesù (Ha-Nozri). Nella versione Bulgakoviana della Passione, Gesù è un filosofo intuitivo e perspicace, e Pilato si macchia del suo omicidio non solo per viltà, ma persino controvoglia, come preso nel vortice degli eventi. La scelta di mandarlo a morte come un comune facinoroso tormenterà Pilato per migliaia d’anni, costringendolo in uno stagnante purgatorio di se e di ma, in cui l’espiazione consiste nel rivivere all’infinito l’incontro con Ha-Nozri.
La storia d’amore
Terza e ultima trama a innestarsi sulle prime due, entrando furtiva e come per sbaglio da una finestra, è la storia di Margherita e del suo Maestro. Anche questo terzo filone evolve in modo imprevedibile e strabiliante.
La relazione tra Margherita e il suo amato, infatti, inizia in un modo così ingenuo (un mazzo di fiori, un inseguimento inevitabile) da risultare quasi fiabesco. Almeno finché il suo protagonista maschile non ricade in quella spirale di follia che, tutto d’un tratto, pare coinvolgere mezza Mosca. Qui la distinzione tra bene e male, tra ordinario e straordinario, tra sensato e insensato, si fa labile e superflua; per Margherita scavalcare il confine e salire in sella a una scopa è facile e persino entusiasmante.
La transizione da una trama all’altra avviene in modo incredibilmente naturale. A far da collante è, tra le altre cose, lo stile di Bulgakov, una scrittura veloce e squillante come quella di una sceneggiatura.
Il mondo come un palcoscenico
Il teatro, oltre a essere l’ambientazione di una delle scene principali del romanzo, è una vera e propria cifra stilistica del libro. E non parliamo del teatro irreggimentato à la moscovita maniera (uno spettacolo così imbrigliato che, racconta Bulgakov, ai trucchi di magia deve seguire il loro disvelamento). No; parliamo di qualcosa di scintillante, drammatico, grandioso, ancora una volta: imprevedibile.
In questo senso, c’è qualcosa di teatrale nei passi di Pilato sotto la loggia; nella disposizione dei soldati sul Monte Calvo; nella crescente drammaticità della scena dell’esecuzione.
Così c’è del teatro nei frizzi e negli sberleffi di Korov’ev e dell’inseparabile Behemot (più volte definiti buffoni) e nella grandiosità del Gran Ballo di Satana; echi teatrali sono persino nelle spettrali figure dei pazienti della clinica Stravinskij, soprattutto nel Maestro, che di notte s’aggira tra le stanze passando di finestra in finestra, proprio come un fantasma.
Mosca, il gigantesco palcoscenico di Woland, si risveglia dallo spettacolo intorpidita, a tratti ferita. Pronta a credere che sia stata tutta una finzione.
- Titolo: Il Maestro e Margherita (Master i Margarita)
- Autore: Michail Bulgakov
- Genere: Romanzo (pag. 552)
- Filone: Letteratura russa
- Traduzione: Margherita Crepax
- Casa editrice: Feltrinelli
- Anno di pubblicazione: 2019 (1967)